Le traduzioni preromantiche (1947)

Le traduzioni preromantiche, «Rivista di letterature moderne», a. II, n. 2, Firenze, giugno 1947, poi in W. Binni, Preromanticismo italiano cit.

LE TRADUZIONI PREROMANTICHE

È dalla prima metà del Settecento che le traduzioni dalle letterature occidentali si moltiplicano con quel tipico fervore europeistico, con quella voglia di mettersi al corrente, di conoscere le nuove correnti spirituali e scientifiche, di portare l’Italia, anche se gelosamente considerata come esemplare di alta civiltà letteraria, ad una comprensione ed assimilazione dei nuovi «lumi». Fervore che si precisa nel periodo illuministico, mosso inizialmente, piú che da letterati curiosi di nuove poetiche, da letterati filosofi, scientificizzanti, spinti dal desiderio della divulgazione dei fondamenti teorici e scientifici della nuova civiltà europea[1]. Traduzioni quindi soprattutto dal francese e dall’inglese, dei testi del sensismo illuministico che per tutto il secolo continuano ad essere immessi e discussi nella cultura italiana. E insieme un piú preciso amore per la classicità o in funzione ancora arcadica (Anacreonte soprattutto), o piú ampiamente in funzione illuministica (gusto della precisazione, della perfezione lapidaria e incisiva, del tono sentenzioso e definitorio), sí che i testi piú amati saranno insieme il De rerum natura e le opere di Orazio. Oppure saranno le opere del teatro greco per il generale amore settecentesco per il teatro e per l’indicazione largamente voltairiana di un mondo di «virtú», di razionale virilità.

Ma dalla metà del secolo in poi l’attenzione dei letterati italiani, resa spregiudicata e destata dallo spirito curioso e indagatore dell’illuminismo, si rivolge anche ai testi poetici che in quegli anni erano apparsi in Inghilterra e in Germania e che già fluivano tra noi, in parte, attraverso le traduzioni francesi. Sia ben chiaro che la ricerca di questi testi non è senz’altro un indice di nuova sensibilità, non è una ricerca ansiosa di trovare motivi consoni a proprie esigenze già enucleate (come avverrà piuttosto per i romantici dell’Ottocento che andavano a certi testi stranieri sapendo già di trovarvi una riprova, un accrescimento della loro posizione romantica) e che, in genere, essa ha origine schiettamente illuministica, deriva da un largo desiderio di conoscenza, di novità, di esperienze letterarie diverse, sí che molti di questi traduttori mediavano con lo stesso interesse e con la stessa curiosità un testo di Klopstock ed uno di Pope (caso concreto: Gaspare Gozzi), un testo preromantico e un testo del piú arido e classicistico illuminismo. Coesistenza che anzi si può vedere ben qualificata in molti di quei letterati che si rivolsero con maggiore passione a tutto ciò che le letterature straniere offrivano alla loro volontà di allargamento culturale.

Un punto di partenza di interesse divulgativo, dunque, non di precisa attenzione letteraria motivata da un cambiamento di gusto già attuato o in avanzata maturazione.

Naturalmente a mano a mano che le stesse esperienze nuove o le nuove intuizioni di un Bettinelli, di un Verri, di un Baretti convergono, la ricerca si fa piú precisa, piú condizionata, finché il nuovo gusto, con aggiunte teoriche nuove, sarà cosí affermato che non sarà piú possibile confondere un Bürger con un Brockes, anche se certi ritorni di Arcadia e di rococò saranno amati perfino in romanticismi piú complessi e articolati, e se in Italia il filone illuministico persisterà in alcune preferenze culturali anche nel pieno romanticismo.

I primi traduttori, mossi da una indiscriminata curiosità, rimasero certo sbalorditi di fronte a testi cosí sconvolgenti e, ai loro occhi, bizzarri, fuori della tradizione settecentesca italiana, agitati da un fremito sentimentale, percorsi da immagini smisurate e condotte non su di una regola di grazia e di esattezza, ma sulla guida di un’esaltazione emotiva, addotte proprio ad arricchimento di pathos, non a conclusione di precisi moti sensibili ed intellettuali. «Oscura nebbia» doveva in realtà apparire molta di quella poesia nordica ai letterati, tutti diretti nel loro intimo ad un discorso poetico che unisse nuclearmente «l’utile e il dilettevole», ammiratori di un «je ne sais quoi» circoscritto miniaturisticamente pur nelle sue sfumature, i cui impeti maggiori potevano portare oltre il mondo laccato di Nattier al rabesco di Fragonard. Trovarsi di fronte alle aperture brusche, inamene, di una natura disordinata, lugubre, ed avere nell’orecchio piú interno la molle eco di una natura tassesco-metastasiana, sentire quegli urli di orrore, di disperazione, quei cupi sospiri di melanconia senza chiari perché, ed essere autorizzati, al massimo, al caro dolore e specie gradevol di spavento del Parini, al solitario bosco ombroso del Rolli, doveva produrre in questi lettori di Young, Hervey, Klopstock un’impressione sconcertante e spesso slegata da quella scala di impressioni estetiche a cui una civiltà letteraria ci abitua. Pure, di contro a letterati piú coerenti sul tipo di Clementino Vannetti[2], che sempre protestò in nome della tradizione contro una intrusione straniera, molti di questi letterati che avevano fatto esperienze dell’Arcadia, della poesia scientifica, della perfezione classicista affiorante con il Parini, si dettero con grande zelo a tradurre direttamente dall’inglese e dal tedesco o piú spesso dalle versioni francesi degli originali nordici. In questo secondo modo la mediazione era piú facile, perché, come si può ben vedere nel caso Le Tourneur, nel preromanticismo francese era stata operata già una riduzione dei testi originali in limiti di sensibilità meno accesa, piú coerente a quella sensiblerie romanzesca che, attraverso la Francia, non aveva mancato di operare in qualche modo anche in Italia sotto l’unico denominatore del gusto sensistico. Piú gravi le difficoltà di coloro che, armati di una conoscenza piú o meno buona della lingua inglese o tedesca (il Cesarotti, come è noto, si fece aiutare dal Sackville a tradurre l’Ossian di cui quello stesso gli aveva per primo parlato), dovevano superare questa specie di abisso che c’era fra due poetiche cosí differenti e, tanto piú in apparenza, contrastanti. Anche perché questi letterati italiani erano cosí attaccati ad una tradizione di poesia in metro, di sonorità metrica e spesso perfino di rima (per quanto nella poetica illuministica prevalesse l’amore per il verso sciolto come verso piú ragionativo e didascalico), che vollero quasi sempre tradurre ciò che a volte negli originali era in prosa poetica in una vera poesia metrica. E cosí il distacco appariva tanto maggiore perché la poesia in verso aveva tanto piú una stretta tradizione di misura, di lingua che non la prosa, la quale, malgrado il peso boccaccesco, si era snellita nella sua utilizzazione da parte dello sperimentalismo illuministico.

La prosa, nel suo stesso significato illuministico di mezzo di volgarizzazione, anche se elegante e controllata (il che non sempre accadeva nel praticismo settecentesco), era meno legata della poesia ad una lingua letteraria che si era arricchita oltre l’esiguo vocabolario arcadico, di termini fra tecnici e classicheggianti, di nomi esotici (Parini), ma non si era aperta nella adeguazione a fantasmi poetici di esaltata visione, a moti di abbandono e di risentimento non misurati e aggraziati, ma liberi e selvaggi, istintivi e precedenti ad una educazione elegante. Anche se negli stessi originali non era difficile scoprire una inevitabile tinta settecentesca che poteva addolcire il fondo piú rivoluzionario della loro novità. Mentre in Le Tourneur e in altri traduttori in francese, come ad esempio il notevole e raffinato Michael Huber, si può notare una scaltrezza veramente eccezionale nel mediare, nell’introdurre a piccole dosi e coerentemente, senza scosse ed urti eccessivi, i nuovi motivi poetici, accentuando sempre piú la tendenza sentimentale insita a suo modo nella prosa romanzesca francese (influenzata a sua volta dai romanzi inglesi alla Richardson), i traduttori italiani offrono in genere uno spettacolo di smarrimento che sarà superato in una sintesi veramente decisiva solo nel Cesarotti. Tanto giungeva ingiustificata quella poesia preromantica straniera che veniva tradotta contemporaneamente al primo affiorare di nuovi spunti teorici e critici, che cosí non offrono un appoggio ai primi traduttori i quali si trovano ad operare a caso vergine, premuti entro un confluire di reazioni varie ed arbitrarie, o con eccessiva audacia disordinata e brutale, o piuttosto con limitazioni che privano i testi originali della loro vera forza di novità. E spesso cercheranno un precedente che li giustifichi nella magniloquenza secentesca che rimaneva di fronte a loro (priva di quei fermenti religiosi che rendono grande e capace di sviluppi il barocco tedesco) come un gusto grandioso di iperboli, di costruzioni retoriche, la cui audacia stilistica poteva essere scambiata con la progenitrice del lirismo sentimentale che trovavano nei testi[3].

Un certo appoggio ai traduttori poteva poi venire piú da certa poesia del Guidi[4], da quella di Alfonso Varano che – prima della metà del secolo e prima dunque delle traduzioni preromantiche, ma assai vicino ad esse tanto da potere essere sentito come un’esperienza contemporanea – aveva rappresentato una specie di ripresa di gusto secentesco in un impasto letterario veramente eccezionale anche se di risultati mediocri. Il Varano ha nelle sue opere una linea di sensibilità solitaria, una posizione appartata: non arcadica, non illuministica (sebbene nelle Visioni non manchino lunghi brani di poesia scientifizzante), esente dall’influsso anglotedesco piú recente, inconscia delle radici nuove di quegli accenti di languore malinconico che non mancano nella sua poesia, in un farraginoso involucro biblico-dantesco (e miltoniano), e che sembrano testimoniare una pallida scontentezza spirituale e formale, una oscura sommossa storicamente poco inquadrata, ma significativa in quegli anni letterariamente tumultuosi. Certo il meglio di lui lo possediamo dove il suo languore e la sua stanca immaginosità sono guidati in un raffinamento di schemi classici e li sensibilizzano senza romperli; e nascono allora, nel Canzoniere, ritratti signorili, di scarsa evidenza, ricchi di una musicalità pigra e qua e là pungente:

Attorta il crin di bianco vel sottile

già la Veneta danza intreccia, e move

la bella Donna, che col piè gentile

tremulo in aria fa le alterne prove:

già il moto addoppia, e qual d’un lampo è stile,

ratta serpeggia in varie fogge e nove;

poi si raggira ad un paléo simíle,

che il cerchio nel girar largo rinnove.

Alfin poi che il vigor perde fermezza

s’asside, e con la man languida folce

il volto, cui rossor cresce bellezza.

Ben fu soave quel, che ogni cor molce,

passo, e grazia del piè; ma la stanchezza

nel leggiadro languor parve piú dolce.[5]

Ma nelle tragedie si può meglio cercare un appiglio preromantico indigeno, almeno come esempio di poetica in crisi, che esse individuano proprio con i tipici errori del periodo di trasformazione, con gli improvvisi crolli di una forma altrimenti perfetta in cui cede la capacità di organizzare passioni e moti sentimentali non previsti e lontani dalla scrittura media della tradizione affermata. Nelle tragedie (Giovanni di Giscala, Demetrio, Agnese martire del Giappone) c’è una impostazione di grandiosità a quadri foschi e barocchi e una tendenza languida di cattolicismo poco combattivo, di scialba morbosità, in cui parole non nuove, ma come rallentate ed internamente bagnate di languore, preparano stati d’animo falsamente eroici e realmente malati:

La sorta

notte, e un tetro silenzio, e il colle esterno

scelto al supplizio, che per faci ed armi

funestamente risplendea lugubre,

e l’idea trista di due Donne amiche,

e d’un molle Fanciul dannato a morte

piú m’accrebber l’orror...[6]

Molti paesaggi notturni, presenza di luna, ritorno di scure tinte barocche che, in una fase ancora fra Arcadia e illuminismo in progresso, indicavano, se non l’anticipo chiaro di una nuova poetica, i segni di una crisi sia pure solitaria che poteva offrire spunti, e naturalmente anche avvisi equivoci, ai traduttori preromantici, ridestando per loro in un nuovo impasto la tradizione barocca e un suo possibile sviluppo preromantico.[7]

Nelle Visioni sacre e morali si è poi indicato a volte un testo già preromantico, anticipatore anzi rispetto alla vera maniera preromantica e alle stesse traduzioni (le Visioni furono pubblicate dal ’49 al ’66). In effetti lo spirito animatore delle Visioni è quello tipico del Varano, scontento del clima illuministico per una collusione non rara di cattolicismo retrivo e di sensibilità insofferente dell’aridità razionalistica, scontento di una forma lucida e cesellata per un rigurgito di immaginosità secentista, per influssi danteschi, biblici, miltoniani, risentiti a loro volta per una coerenza di scrittore cristiano e di nuovo innamorato di temi grandiosi e sublimi. Ma certo prevale in lui l’appello di un gusto barocco, di una grandiosità piú nel senso del fasto cattolico controriformistico che non nel senso del sublime preromantico.

Pure, specie se osservate contenutisticamente (poiché le rivoluzioni poetiche si annunciano con la proposta di nuovi contenuti perfino esasperati come tali), le Visioni offrono notevole materia agli studiosi del preromanticismo italiano[8]. Anzitutto l’impostazione cristiana, l’uso di mitologia cristiana a fondamento della poesia che prelude alle polemiche propriamente romantiche[9]. Cosí nella prefazione il Varano combatte Voltaire che nel Siècle de Louis XIV aveva negato che gli argomenti cristiani potessero prendere il posto della mitologia pagana, e afferma che volle «parlare in poesia... senza attingere le idee alle false o impure sorgenti delle gentilesche deità». E d’altra parte propone temi sepolcrali con una insistenza younghiana, prima di una versione delle Notti, mentre insieme limita la loro efficacia con una precisa remora confessionale e con la varietà secentistica, per cui delle Visioni, cinque sono in morte di persone, tre sopra argomenti morali e teologici, due sulle sventure e due encomiastiche. La pompa, il fasto prevalgono in definitiva entro l’intenzione del Varano e ciò limita anche il gusto dantesco e biblico che è avviato soprattutto ad accrescimento costruttivo di solennità. Ma ad ogni modo tale impasto letterario, anche se derivante da esigenze diverse da quelle piú schiettamente preromantiche, non dové del tutto sfuggire ai traduttori di metà secolo, che per testi come quelli dello Young poterono ritrovare un appiglio di interpretazione nell’impostazione grandiosa e meditativa del Varano, anche se la vera efficacia di questo doveva rivelarsi nel Monti, nel suo côté piú barocco, piú accademico, e in un gusto dell’orrore piú secentesco che nuovo[10].

Se si esaminano le Visioni nella loro concreta offerta, si viene a conoscere una poesia disordinata, eccitata, come in un vaneggiamento di immaginosità a scatti saltuari che indica piú una crisi che una vigorosa novità. Immaginosità macabra e facilmente declinante in grottesco anche nello schema di racconto (si pensi alla prima in morte del Barberini con la goffa trovata della caduta e della salvezza operata dall’ombra del morto) e che sfocia spesso in una torbida allucinazione senza linea e senza grandezza, in un linguaggio bizzarro, intriso di colori audaci e sbiaditi, ambizioso di rendere l’eco di ebrezze mistiche, sensibili, e pure incapace di salire ad una coerenza di atmosfera poetica, di resistere alle tentazioni di una verbosa precisione illuministica. Esempi di lingua non comune, di una eloquenza a lampi e pur pesante di immagini senza spazio e senza organico sviluppo, che poco incisero sul preromanticismo italiano di fronte all’efficacia delle espressioni degli stranieri nelle ambigue e spesso deboli traduzioni.

Pareami novi fior sul gambo molle

tremolar dolce, e di vaghezze nove

quelle vestir non mai sfornite zolle.

Quanta avvien che olezzante aria rinnove

timo, o rosa, o viola, in croco tinta,

che gli aliti odorosi in cerchio piove,

la falda ammorbidia da’ mirti cinta,

su cui per crescer a delizia onore,

maravigliosa apparve Iride pinta,

che segnò l’erbe col gentil colore,

sorta del Sol per la refratta luce

nel rugiadoso dell’Aurora umore.[11]

E il linguaggio si appesantisce ancor piú senza raggiungere una nuova sintesi nella frequente ricerca del macabro che apparenta contenutisticamente le Visioni ai testi preromantici estremi, risentendo insieme dello spirito controriformistico che le volge ad un tono di orrore in funzione religiosa, moralistica:

Sul letto di putredine schifosa

giacea dal tempo nel suo morder forte

l’estinta spoglia avidamente rósa:

fitti i rai spenti entro l’occhiaie smorte,

guaste le labbra, aperto il petto, e l’anche

gonfiate e tinte di livida morte:

rigide e impallidite le man bianche,

dilacerato il grembo, e combattuto

dalle serpi non mai nell’ira stanche,

lezzo, noia, ed orror quel, che rifiuto

fu degli ingordi vermi, ed era in lei

la piú vezzosa parte il cener muto.[12]

Bruto contenutismo (verrebbe voglia di adoperare l’espressione usata da Cecchi per Uomini e topi di Steinbeck: lurida patologia) che dalla base barocca si svolge in un singolare isolamento verso tempestose rotture di equilibrio spirituale e formale, pur mancando chiaramente della volontà di emozione sentimentale che contraddistingue gli estremismi di un Viale e di altri preromantici, che certo potevano simpatizzare con quel museo di orrori anatomici che il Varano spiegava nella descrizione della peste messinese o del terremoto di Lisbona:

io teneri mirai Bambin leggiadri

con bocca di marcioso umore intrisa

succhiar il tosco dalle spente madri.[13]

In complesso dunque un testo che, pur non influendo decisamente sui contemporanei (la sua azione si risentí meglio nel Monti e nel Leopardi adolescente in cui si confuse con il macabro sentimentale del pieno romanticismo), autorizzò i traduttori italiani, con il suo precedente di lingua poetica scossa da bagliori incoerenti di immagini e di languori fonici, a sentire i loro testi in una possibilità di italianizzamento, sicché piú tardi vari scrittori ottocenteschi poterono amarlo come un surrogato di quegli autori che per reazione sciovinistica non ammettevano volentieri fra i loro modelli letterari.

Su questo spunto equivoco di appello barocco e di confusa crisi settecentesca, i traduttori costruirono le loro opere (e molto spesso anche tale spunto poté mancare alla loro personale cultura) ed offrirono al pubblico italiano dei pastiches bizzarri che pure furon capaci di iniziare una nuova maniera poetica, di dare il primo urto ad una lingua poetica vissuta in un clima di equilibrio, di calma che questa prima ventata romantica incrina. Il compromesso, l’incertezza, l’incoerenza di queste traduzioni era in generale cosí evidente che letterati di gusto squisito come il Parini e il Bettinelli potevano esserne nauseati e preoccuparsi dei risultati di una loro influenza in una tradizione cosí nobile e «pura»[14].

Ma, vedendo le cose storicamente e fuori dei sentimenti polemici che animarono quegli anni cosí ricchi di querelles, si è costretti a dare una grande importanza a questi nostri letterati perché, bene o male e con una mescolanza spesso efficace, segnarono l’ingresso di nuovi atteggiamenti poetici, di cadenze, di nuove impostazioni di immagini e di linguaggio nel loro riferimento sentimentale. Sono traduzioni mescolate con quelle di libri schiettamente illuministici e con versioni dal greco e dal latino (che incidono invece sull’aprirsi della corrente neoclassica e quindi solo indirettamente su quella piú generale preromantica che della prima si nutre nel suo fluire verso la civiltà del romanticismo neoclassico del Foscolo e Leopardi), traduzioni in prosa, in versi sciolti o in strofette e persino in esametri e pentametri latini, il cui studio però si può utilmente esemplificare in pochi casi tipici o nella traduzione decisiva che è l’Ossian cesarottiano.

Se prendiamo il testo forse piú risentito nel nostro preromanticismo, The Night Thoughts dello Young, nelle traduzioni italiane piú notevoli possiamo subito verificare il limite di mediazione dei nuovi motivi e, insieme all’equivoco, al compromesso, la reale presenza, malgrado tutto, di parole nuove, di accenti diversi, di sensazioni fino allora non accettate come suscettibili di presentazione letteraria nella nostra lingua poetica. E in tal senso si noti che vanno considerate con uguale interesse sia le espressioni originali sia quelle provenienti da una versione letterale, perché in ambo i casi ciò che ci interessa in uno studio tendente ad assicurare il passaggio fra due culture letterarie, la prova di un nuovo gusto non tanto teoricamente quanto nella costruzione letteraria, è appunto l’affiorare comunque giustificato dei segni della nuova sensibilità, il loro apparire nella nostra lingua poetica. Il loro esistere «italianamente», anche se portati di peso da un testo straniero, è ciò che qui conta e perciò ci interessa meno vedere fin dove e come il traduttore abbia o no tradito l’originale, quanto precisare l’effetto preromantico della traduzione, il suo grado di novità sulla via del romanticismo. Naturalmente in questo esame ha avuto sempre il suo peso la constatazione di una forza a suo modo originale, personale del traduttore, se essa riesce ad organizzare in maniera vitale gli spunti nuovi in un disteso clima preromantico come avviene per il Cesarotti. Perché allora la sua forza di novità è tanto maggiore e la persistenza dei nuovi motivi nella poetica settecentesca è tanto piú probabile. D’altra parte l’accertamento della fedeltà, della capacità di resa delle traduzioni può indicarci non il valore singolo di esse, ma la misura particolare di impeto preromantico che in esse è passato: può indicarci insomma le difficoltà iniziali di una piena assimilazione italiana del movimento europeo e la difficoltà della formazione di un romanticismo estremista, la caratteristica piú moderata (non perciò esteticamente inferiore) del nostro movimento romantico ottocentesco. È chiaro anche cosí che uno studio per spaccato di queste traduzioni non è qualcosa di accessorio e di trascurabile di fronte a quello delle personalità genuine della nostra letteratura settecentesca e che non basta (come di solito si fa) accennare alla loro esistenza come indice di una moda, senza turbare la linea essenziale dello sviluppo prerisorgimentale e classicheggiante della nostra letteratura. Non si passa infatti alla comprensione di un Foscolo, del nostro grande romanticismo neoclassico, senza i concreti apporti alla nostra lingua poetica di immagini, di giri sintattici, di cadenze sentimentali delle traduzioni preromantiche; e non perché a molti nostri poeti mancasse un contatto diretto con gli originali stranieri, ma perché ben diverso è venir colpito individualmente in una lingua straniera da un modello poetico nuovo e trovarsi invece di fronte a motivi nuovi già penetrati ed italianizzati, di fronte a immagini, prodotti di sensibilità divenuti comunque proprietà di quella lingua poetica con cui concretamente un artista deve fare i suoi conti.

Ecco due traduzioni delle Notti: quella di Gerolamo Bottoni (Siena, 1775, e, in parte, già a Pisa, 1771) e quella di G. Alberti (Marsiglia, 1770). Nella prima è chiara la volontà di ridurre il testo in misure tradizionali, in poesia tra classicista e metastasiana[15], e c’è forte anche quella remora confessionale cattolica che è certo uno dei lati piú negativi del Settecento italiano, in quanto, specie nell’illuminismo, limita, lascia a metà ogni accettazione estremista in nome di una osservanza neppur sempre sincera. Mentre nella seconda, con l’esagerazione dei provinciali, cosí comune in oscillazioni fra cieche accettazioni e ridicoli sciovinismi, il traduttore accentua già nella prefazione il tono lugubre e notturno dell’opera puntando tutto sullo Young stesso identificato con il suo libro, come un eroe di questo mondo dolente di «lugubri pitture, che una penna Inglese in lingua forte, energica, ardita, nel cupo universal silenzio delle Notti piú buie, delineò in mezzo ai sepolcri»[16].

Nella prima sentiamo riduzioni entro la sensibilità comune settecentesca, come la seguente:

O dell’alme gentili amabil Dea,

argentea Luna tu che in questi istanti

regni tranquilla e sola in seno agli astri,

scendi, lascia le stelle, e tu mi detta

cose che il cielo istesso ammiri e Giove.[17]

Dove la volontà di accomodare tutto in maniera accogliente e classicista provoca perfino il richiamo di un Giove, che è un’evidente stonatura in questo clima piú da larve nordiche che da elleniche divinità. Invece l’Alberti, fedele al testo o meglio alla traduzione del Le Tourneur (il cui ordinamento fu del resto seguito anche dal Bottoni), pur in buffi addolcimenti, porta piú pedissequo, ma in sostanza con piú audacia, la nuova intonazione, senza sforzarsi troppo di armonizzarla con quella tradizionale: «Ah! già sento la melancolica tua influenza, essa penetra l’intenerita anima mia»[18], che è la traduzione di Le Tourneur: «Ah! Je sens déjà ta mélancolique influence; elle pénètre mon âme attendrie»[19]. O altrove: «Sciogliendomi dalle braccia degli stravaganti sogni che travian, dormendo, il mio pensiero, io mi desto un’altra volta»[20]. Mentre il Bottoni adoperava un giro piú tradizionale:

Già de’ tuoi gravi e tristi influssi io sento

la forza, o Dea, che mi circonda e investe.[21]

E, dove, traducendo ciò che il Le Tourneur dice cosí perfettamente («O ma chère Narcisse, je crois te voir pâle et triste; je crois t’entendre dire à mon âme: il est nuit pour moi, ma jeunesse et mes plus chères espérances sont ensevelies dans une nuit éternelle»[22]), l’Alberti riporta alla lettera: «O mia cara Narcissa, mi sembra vederti pallida, e mesta, mi par udirti dire all’anima mia: egli è notte, per me, la mia giovinezza, e le mie piú care speranze sono sepolte in una notte eterna!»[23]; il Bottoni addolcisce e volge in languore d’Arcadia le caratteristiche del tono originale:

Amabile Narcissa io... sí... ti veggio

pallida, triste, e la tua voce io sento

che mi ricerca il cor, che all’aure chete

in flebil mormorio tai note scioglie:

«cupa notte è per me. Di notte eterna

il vago fior degli anni miei, le mie

piú felici speranze or sono in preda».[24]

Ogni forma di paragone raccorciato ed esaltato viene stirato dal Bottoni ai termini del paragone piú consuetudinario, ai termini di una retorica piú immaginosa che sentimentale:

Come il maligno augel che già volteggia,

sulla cervice mia, che la mia pace

colle torte sue luci urta e minaccia

cosí la morte a divorarti accinta,

tutta di sangue e di furore accesa

di vittima novella avida sete

fe’ nota a questo cor, del fiero pasto

spettatore infelice, e poscia il ferro

di Narcisa nel sen tutto nascose.[25]

E certo nella prosa del traduttore letterale, in quella specie di «brutta fedele», troviamo una pedissequa aderenza e quindi oggettivamente una maggiore possibilità di influenza e di eccitazione della sensibilità dei letterati italiani, fuori di una precisa lingua poetica. A leggere, per esempio, il brano seguente senza preoccuparsi troppo del fatto che si tratta di traduzione letterale, si sente quanta novità vi risalta per la lingua letteraria italiana nell’uso piú caldo e rapito di certe parole («incantava l’anima»), nel languido giro della frase («all’interrotta sua dolce canzone»), nell’espressione continua di una poetica a base sentimentale, preoccupata di riprodurre una vita di sensibilità e di fantasia tutta misurata sulla intensità: «Cosí cade colpito dal piombo micidiale il melodioso cantore delle foreste nel momento istesso, in cui incantava l’aria col soave e maraviglioso suo gorgheggiare. Egli spira in mezzo all’interotta sua dolce canzone... Piú voce non si ode in quella selva animata pria da’ suoi concerti, e vi si sente rientrare il fosco orrore di un mesto universale silenzio... Il fremito delizioso, ch’essa eccitava in fondo alla commossa mia anima, vi dura ancora, e la penetra d’una tristezza mista di voluttà... Ma la tristezza è piú forte»[26]. Qui, sia pure con poco sforzo originale del traduttore (che anzi trova impasti piú saporosi inconsciamente quando lascia fluire l’originale senza riduzione e quasi senza volontà di nuova forma), si sente quel tono serio di partecipazione personale, di impeto che non si scioglie in serenità di canto, che è tipico di questo inizio di nuova poetica affiorante con un di piú extraestetico, con una abbondanza sentimentale che riempie il modulo artistico, ma ne fuoriesce e lo circonda di un margine informe. Manca del tutto il gusto della canzonetta che anima prevalentemente il Settecento magari in «varietà», come perfino nella versione cesarottiana[27]; nello stile assorto e quasi fanatico si avverte il passaggio dal canto di tipo metastasiano (non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali), ad una vera meditazione lirica sulla morte o sulla passione.

Da questi brevi esempi si può concludere come il punto estremo del nuovo gusto, la sua coerenza, sfuggissero a chi come il Bottoni tentava accordarlo e placarlo nella tradizione lirica italiana, e come esso passasse in versioni prosastiche: le quali però, mentre presentavano i nuovi motivi, le cellule sentimentali di una nuova poetica in maniera piú genuina, li lasciavano in realtà sempre un po’ estranei alla vera corrente lirica, che piú difficilmente si nutriva di esempi prosastici. Avevano cosí un’influenza piú indiretta, suggerivano un’atmosfera, offrivano dei loci communes di sfondo, di racconto, e semmai, in una prosa piú tenera e piú immaginosa, rappresentavano una possibilità di avvicinamento fra prosa poetica e poesia che è essenziale per l’abbandono della lucidità arcadica e del piú illuministico classicismo. Mentre d’altra parte le versioni piú libere, preoccupate di trasportare l’originale in una lingua poetica coerente, in modi coerenti alla diversa tradizione, restano piú limitate, piú compromesse, ma ci interessano in quanto il loro tentativo è sul piano piú valido della lirica, e fa i conti con una tradizione che non si poteva ignorare a rischio di lasciar separati, abnormi, inassimilabili, i nuovi germi poetici respingendoli in un limbo di approssimazione e di incomprensione in cui presto potevano venir dimenticati. Massima doveva poi diventare l’efficacia di chi, al di là del tentativo di un Bottoni, di una Caminer-Turra, di un Pagani-Cesa, seppe, come il Cesarotti, rendere viva la forza intrinseca di un nuovo testo in un impasto letterario autorizzato. Ad ogni modo nei casi piú comuni la compresenza di traduzioni all’Alberti e di traduzioni alla Bottoni assicura quel processo lento, sussultorio ed equivoco, ma ineliminabile per la comprensione del nostro preromanticismo, per cui suggestioni piú forti ed autentiche si offrono in un campo piú spregiudicato e quasi fuori legge, e nella linea della moda tradizionale se ne inseriscono le riduzioni che agiscono nel fare poetico e permettono piú audaci afflussi di un mondo di sensazioni poetiche che, approvate in parte in una loro educata mediazione, non possono piú venire rifiutate in blocco, escluse da un possibile loro uso letterario. Cosí penetrano, per restare all’esempio delle Notti younghiane nelle traduzioni Alberti e Bottoni, i motivi di una nuova discussione lirica: il motivo della morte e della immortalità, non piú in senso confessionale, ma come bisogno di una tetra sentimentalità («La vita è troppo adulata, troppo calunniata la morte»[28]), il motivo delle tombe e della loro estetica suggestione («Felice quell’uomo, che disgustato de’ piaceri fittizi d’un mondo tumultuante, e di tutti que’ vani obbietti, che si frappongono tra la nostra anima, e la verità, si innoltra a sua posta nella densa, tacita ombra de’ funebri cipressi, visita le sepolcrali caverne, illuminate dalle fiaccole della morte, legge gli epitaffi de’ trapassati, pesa la loro polvere e si compiace in mezzo a’ sepolcri»[29]), il predominio di un paesaggio notturno e lunare («Egli è nel cuore delle tenebre che l’anima riceve le sue piú vive illustrazioni e che la di lei vista diventa piú penetrante e piú viva»; «La mia musa è la prima che abbia implorato il tuo aiuto, o luna...»[30]; «Ne’ fragorosi trasporti del nostro entusiasmo, voi invocate l’astro luminoso del giorno; voi cantate al chiaror de’ suoi raggi... Io invoco la notte, io cerco solo la sua soave oscurità. I miei canti non sono canti di gioia...»[31]), la difesa delle passioni spiritualizzate («Freddi moralisti, che prendete il diacciato vostro temperamento per regola de’ vostri giudizi, voi osate biasimare l’ardore delle passioni, voi disonorate quei nobili agenti di un’alma immortale, col farli provenire da una sorgente impura, e colpevole»[32]). Soprattutto l’ossessione della morte, la sua capacità di suscitare una tinta funerea costante («E cosa è in realtà questo mondo in cui di stolta gioia viviamo inebriati? Un vasto soggiorno di lutto, ricolmo di avelli, parato di emblemi funebri che la morte incessantemente ci sospende d’intorno»[33]): quella ossessione lirica della morte che condizionerà cosí chiaramente preromanticismo e romanticismo italiano dai Sepolcri alle Canzoni sepolcrali del Leopardi e che costituisce un compenso importantissimo alla mancanza di violenza sentimentale della nostra poesia settecentesca, alla precedente mancanza di un barocco mistico come quello tedesco, in una tradizione in cui i valori spirituali sono stati sempre tutti tradotti in una chiarezza senza residui.

Ossessione della morte che si volgarizzava in gusto tragico dell’orrore, in quella scenografia estremista di cui erano penetrati in Italia, già prima del ’70, esemplari come l’Eufemia dell’Arnaud[34] nella versione di Elisabetta Caminer-Turra, uno dei piú infaticabili mediatori preromantici. Accanto alle frasi rivoluzionarie di Young, ecco un armamentario preromantico di cui i versi equilibrati della traduttrice danno una chiara idea.

Tra questi ciechi orror lugubri e queste

tombe, a ogni passo tremante... smarrita...

meco traendo un inferno... il rimorso...

cammino al lume d’una tetra lampa...

lampa di morte...[35]

Come la danno le descrizioni stesse delle scene: «A sinistra sta un feretro appiedi del quale vedesi una lampada accesa. Dalla stessa parte, piú avanzato nella scena è un inginocchiatoio sopr’a cui sta un crocifisso sostenuto da un cranio di morto» (1ª scena del I atto). «La scena rappresenta una di quelle fosse funebri ch’esistono ancora nelle nostre chiese antiche. Vi sono parecchie tombe di varie figure, alcuna delle quali è rovinata dal tempo; dei sepolcri socchiusi, colle pietre mezzo spezzate; le mura cariche di epitaffi; da un lato della scena una scala, intorno alla quale v’ha una balaustra di pietra; dirimpetto alla scala una volta sotterranea, di cui non si vede il fondo; all’estremità della fossa si scorgon varie altre tombe; delle colonne sopr’alle quali stanno dell’urne che sono l’emblema dell’eternità; una di queste colonne è piú avanzata sulla scena. Si osserverà che le tombe sono ai lati, onde non si tolga allo spettatore la vista dell’azione che si rappresenta nel mezzo della notte»[36]. Motivi nuovi, nuovi modi di realizzare poesia in immagini, in situazioni, in scene, materiale nuovo, cristallizzazione inevitabile di un nuovo gusto che, portati in lingua italiana, possono agire su di una larga cerchia di lettori e modificare la relazione di questi con tutto un costume sentimentale e letterario precedente ed agiscono già entro la naturale discussione poetica, che in una letteratura è continuamente aperta in concreti termini di espressione concreta, come non sarebbe avvenuto su testi originali, penetrati fra pochi esperti, e non portati nella dialettica intima della letteratura italiana.

Naturalmente il gusto della nuova sensibilità malinconica era ancora ben poco giustificato e si affermava, in quegli anni fra il ’60 e il ’70, con una violenza superficiale, in estensione, senza profonde radici intime e senza un’adesione ed una comprensione che potessero dar luogo a nuove sintesi se si esclude il risultato cesarottiano. Si spiega cosí il tono socievole con cui i traduttori presentano, ad un pubblico che presumono impreparato, opere di cui essi stessi non attingono il fondo piú rivoluzionario (e questo stesso era a volte equivoco e compromesso), e piuttosto le intendono secondo le linee settecentesche dell’estro, della bizzarria immaginosa e come riprova delle prime intuizioni di una libertà fantastica genericamente affermata, o le accettano in parte come ritorno di gusto secentistico al quale molti cuori erano rimasti intimamente fedeli (e per alcuni era sviluppo varaniano), in parte come documenti di una sensiblerie piú «toccante», ma sempre nella direzione di aristocratico godimento e di preziose raffinatezze. «Offrire all’E.V. (si noti che il libro è offerto per monacazione) un poetico serto tutto contesto di lugubri carmi parrà forse agli spiriti men delicati e sensibili delirio, follia. Ma io che soglio ammirar da presso i rari pregi dell’animo vostro, che non è ligio della corrente, io che so quanto siete amica della dolce e gentil malinconia cosí cara all’anime piú elevate, ... oso ripromettermi il cortese vostro aggradimento», dice Francesca Roberti-Franco nella prefazione alle Tombe di Hervey[37], e aggiunge «io vi presento una raccolta d’immagini tutte meste e di terrore alla maggior parte de’ mortali, ma che voi premunita delle doti piú rare e delle piú egregie virtú riguardar ben saprete con fermo ciglio», ridicolizzando, come avviene quando ci si investe seriamente di un sentimento poetico poco assimilato, la novità preromantica in un buffo grand guignol che lo spettatore cercherebbe per esercitare la propria impassibilità. Cosí che il pubblico viene sollecitato da un interesse piuttosto tragico-narrativo, da situazioni emozionanti, e l’intonazione eloquente-lirica del preromanticismo, specialmente inglese, si viene a perdere nelle intenzioni dei traduttori che cercano di ridurla nei limiti di un acquisto particolare senza l’impegno di tutto un coerente cambiamento letterario. Va dunque chiaramente affermata una disparità di tono fra tradotti e traduttori e quindi la presenza di risultati diversi e spesso contrastanti: accentuazione arcadica, oppure forzatura del macabro verso un piano romanzesco tragico, che avvicina il piú possibile poemi e poemetti a vere e proprie novelle in versi, a tragedie «orrorose» come quella citata dall’Arnaud, o a certe produzioni di second’ordine che ebbero invece notevole favore come quei Funerali di Araberto religioso della Trappa dello Jerningham (versione libera del Pagani-Cesa[38]), tipo di novella nera assai scadente, ma che in pieno romanticismo troverà, in connessione con altri modelli, possibilità di imitazioni stilisticamente non molto diverse dalla versione Cesa. Esempio questo, nella sua notevole disinvoltura, di come gli italiani fossero piú disposti a risentire i nuovi motivi in una cornice drammatica a cui erano preparati da una specifica tradizione di «genere letterario», mentre provavano imbarazzo di fronte agli stessi motivi nella lirica, proprio dove la loro importanza era ben maggiore e sconvolgente come prodotti della rivolta antirazionalistica, anticlassicista entro forme tradizionalmente placide e serene. Confinate piuttosto nel campo della «tragedia», espressioni nuove, immagini nuove

(stassi pendente solitaria lampa

dalla lugubre volta, il cui chiarore

non dissipa la notte, e sol ne rende

visibile l’orror)[39]

restano isolate, sentite come esperienze particolari di uno stile fra altri stili, di un tono fra altri toni. Tuttavia il confluire di queste versioni con nuove intuizioni estetiche e con uno spostamento nella sensibilità piú generale costituisce una base sempre piú larga ad espressioni piú decisive. E ad ogni modo quanti stimoli agiscono attraverso queste traduzioni nella nostra lingua poetica, nella poetica di questo periodo!

«Parole», segni che assumono uno spicco e quasi un’autorizzata capacità di suggestione che le pone cosí come nuclei di poesia per la loro stessa presenza, giri lenti di verso sciolto che non vogliono tanto adeguare la solennità classica quanto una mollezza sentimentale, una sospirosa sospensione, la precisazione non di un nucleo logico, ma emotivo, l’introduzione di termini piú della prosa che della lirica aulica: i quali magari stonano, ma indicano un certo ribollire d’immagini, una direttiva non chiaramente stilistica che vuol costruire entità poetiche su di un libero slancio antiornamentale.

Si leggano questi versi tradotti dal Pagani-Cesa dalla Eternità di Haller[40]:

E allor che un nuovo nulla avrà la terra

assorta inabissata, allor, che solo

vuoto spazio sarà l’ampio Universo,

allor, che i nuovi Cieli, in cui diverse

dalle presenti brilleran le stelle,

essi pure i lor corsi avran compiuti...

Cupe foreste, ove di luce un raggio

non penetrò giammai fra i spessi rami,

ove serba ogni selva in sé dipinta

la notte della tomba; annose balze

ove raminghi infra le balze e i dumi

le triste melodie stansi alternando

i solitarj augelli; o rauchi rivi,

che lentamente l’onde sonnacchiose

per questi aridi colli in sen versate

d’infeconde paludi, o piani adusti;

valli immense d’orror, voi della morte

pingetemi l’aspetto, il duol pascete

d’un gelido terror, scorgasi in voi

della tremenda Eternità l’immago.

Non c’è ancora un autonomo nucleo personale che vivifichi queste parole, questi accenni di nuova sensibilità in una disposizione ancora tradizionale, ma quale cadenza nuova in questi endecasillabi dove nuclei piú intensi (e specialmente a singole parole si affidano i traduttori, piú affascinati dalla forza di una parola che non capaci di ricreare dal proprio intimo l’atmosfera che quelle parole nell’originale caricavano di suggestione), dove frasi piú insolite («la notte della tomba»), accostamenti di natura e sentimenti, sulla direzione di una desolazione, di una tristezza della natura, inclinano il verso ad una armonia piú molle, meno lineare.

Se si afferma nei traduttori questa presentazione di elementi sentimentali e poetici di orrore, di tristezza cupa, limitata e spesso esitante (originale e piena sarà nell’Alfieri), piú facilmente si insinua in loro, e attraverso loro nella lingua poetica italiana, un nuovo senso di idillio preromantico, di malinconia soave, non piú appoggiato ad una lieta e sensuale armonia di paesaggio, di natura, di pacata umanità (l’Aminta tassesca), ma ad un sentimento di fragilità, di sventura dell’uomo che porta come l’ombra di un cielo di bellezza immortale in un mondo bello ma transeunte. Affiora piú facilmente quel senso di infelicità idillica, quell’impasto di grazia e di malinconia che trovava una giustificazione piú evidente in un inganno di languore arcadico:

Era l’Autunno, alma stagion soave

che al riposo ne invita, e sovra ogni altra

nell’anime sensibili riversa

dolce melanconia, dolci pensieri.

Cosí nella versione della Roberti-Franco dalle Tombe di Hervey[41], in mezzo a tanta decorazione arcadica, a tanto gusto di precisione illuministica, entra agevolmente un tono di maliosa sensibilità autunnale che porta la musica dell’idillio classicista a musica piú sfatta e piú trepida.

Per questa strada piú facile si giungeva a fare guida della costruzione poetica quella libera sentimentalità, quella libera vita del cuore che diviene il passaporto, anche troppo evidente, della lirica; la quale risorge ad una autonomia proprio per merito di questo impeto sentimentale dopo la limitata libertà arcadica, in cui la cartesiana chiarezza, l’eleganza socievole danno alla lirica un tono di sensibilità guidata dall’intelligenza che misura le sfumature, i margini del brio e del languore, e dopo la funzionalità illuministica che la sintesi pariniana utilizzò mantenendo nei limiti del realismo, del didascalismo, della precisione sensistica e classicistica una adeguata capacità di espressione.

Era questo un atteggiamento piú agevole per la cultura letteraria degli scrittori italiani e permetteva un’assunzione piú facile della nuova sensibilità: in mezzo al preziosismo settecentesco che indulgeva a diminutivi inesistenti nell’originale, a parolette della topica arcadica, si fa strada l’intonazione sentimentale a cui l’arcadica traduttrice cedeva sotto la suggestione per lei equivoca del testo sulla china della sensiblerie sensistica una volta messa non al servizio della raison, ma tutta liberata e quindi facilmente risolta in musica di lirica tenerezza, in costruzione di immagine ad eco sentimentale. Era un po’ l’incertezza e l’equivoco, il timido passaggio da razionalismo a romanticismo sulla unica costante del sensismo sciolto in sentimentalismo, che abbiamo notato anche nelle nuove intuizioni di poetica dei Bettinelli o dei Baretti:

Voce d’augello annunziator d’albori,

auretta del mattin che incenso olezza,

queruli lai di rondinella amante,

tonar di squilla o rintronar di corno

non gli alzeran del loro letto umile.[42]

E il traduttore è tanto preso da questo gusto di sensibilizzare e sentimentalizzare tutto, che, in coerenza d’altronde con il bisogno tradizionale di una compiutezza descrittiva che richiede aggettivazione abbondante, a volte amplifica ed accentua sentimentalmente il passaggio idillico del testo:

come al colpir delle robuste braccia

gemeano i boschi disfrondati e ignudi.

(How bow’d the woods beneath their sturdy stroke!).

In questa direzione piú agevole (e naturalmente anche piú equivoca per la possibilità di riduzione, di schiacciamento totale in un tono idillico-arcadico tout court) è da tener particolare conto della fortuna di Gessner, delle traduzioni italiane che se ne fecero, dell’amore singolare che quasi tutti i letterati ebbero per il poeta svizzero, esaltato oltre il suo valore, in realtà limitatissimo. In quel delicato momento di passaggio, in cui veniva accolta con gioia, ma con smarrimento insieme, ogni suggestione, ogni stimolo che toccasse e facesse vibrare uno dei capi di quell’intricato groviglio di motivi, di fili conduttori mescolati in un comune fondo di presentimenti, di velleità sentimentali e poetiche, l’idillio gessneriano appariva come la continuazione e la sensibilizzazione dell’idillio tradizionale, la comoda ripresa di motivi arcadici e addirittura di quella grazia greca a cui i primi fremiti di romanticismo neoclassico, il gusto ornamentale alla Savioli, portavano ad aspirare[43]. Come sempre avviene, il meno rivoluzionario è accolto con piú favore perché permette un passo avanti senza il rischio di un’avventura fuori della tradizione. Cosí gli Idilli e poemi campestri che già avevano commosso i francesi (Huber li aveva tradotti nel 1762) vennero proposti all’attenzione dei letterati italiani piú volte e con estremo successo: Gessner divenne una specie di ideale eroe preromantico, un «sinolo» di virtú domestica, di squisita semplicità commovente per le anime sensibili, di limpida grazia poetica, e il testo piú accessibile a coloro che guardavano con estrema diffidenza le poesie lugubri e tumultuose degli Young, Hervey, Macpherson. Gessner in Italia costituiva il punto di incontro di nostalgie arcadiche e di temperate audacie preromantiche, confermava la linea idillica che a tanti sembrava quella essenziale della nostra poesia, e portava infine quasi una conferma tutta poetica del motivo rousseauiano dello stato di natura che, cosí potente nella definizione intera del preromanticismo, giungeva piú estraneo nel suo preciso stimolo di rinnovamento ad una chiusa tradizione lirica come la nostra. «Un’opera che tante volte ha svelte all’anima mia le lagrime della commozione, del sentimento e che a questo titolo è diventata la mia prediletta», dice degli idilli gessneriani la Caminer-Turra che li tradusse nel 1781 (Venezia), dopo che il Pagani-Cesa aveva dato il Saggio delle poesie pastorali del sig. Gesnero (Belluno 1779) e dopo che il Bertola li aveva presentati nella sua Idea della poesia alemanna come capolavoro di sentimentalismo idillico e familiare: quasi Greuze peggiorato in Chodowiecki. E certo il tono, riconosciuto come emotivo, degli idilli, in sé e per sé cosí limitati e circospetti, è accresciuto e rilevato dal sentimentalismo diffuso in quegli anni dai testi preromantici piú decisivi, tanto che spesso, mentre nelle altre versioni i traduttori lavorano per smorzare i toni troppo accesi, a ridurre la novità, qui tendono a renderla piú evidente, a sottolineare ogni mossa sentimentale e, sotto l’influenza ossianesca, ogni minimo appiglio a immagini piú turbate, a «tempeste dell’anima», a paesaggi d’orrore. Sottolineano questi motivi e insieme li cantano in versi sciolti, in terzine, in strofette, per trasformare la delicata prosa di Gessner e di Huber (il quale fu presente almeno alla Caminer-Turra) in misura piú italiana perché piú cantata. Tendenza costante di questi traduttori che ammettono difficilmente l’idea e la pratica di una poesia in prosa e che sentono di dover mediare i nuovi testi in poesia in versi, in quella lingua poetica che costituiva il vanto degli italiani di fronte alla lingua filosofica e scientifica dei francesi. Tendenza che ha due aspetti: uno negativo perché la cura di versificare disperde una forza originale dei testi, uno positivo ed assai interessante perché la discussione preromantica si svolge in un ambito concreto di lingua poetica, di soluzioni che interessano tutta la nostra poetica aulica, che sarebbe rimasta come intatta se quelle nuove esperienze si fossero da lei separate, avessero cercato una vita forse piú rigogliosa, ma meno efficace perché fuori del campo di prova dei poeti italiani.

Cosí, se facilmente Gessner diventa canzonetta

(Hier kühl’ ich meine Flügel im Rosenthau,

und sammle liebliche Gerüche,[44]

diventa

l’ale mie vo rinfrescando

nelle stille rugiadose

de’ fioretti, ed involando

grati odori a gigli e rose)[45]

e l’amplificazione arcadico-pariniana è sempre pronta

(Du glatte See, bleib immer sanft!:

e ’l mar tranquillo e cheto

oscuro ciel turbato,

orrido nembo irato

non osino agitar),[46]

spesso quel candore che sale nello svizzero e che manca alla poesia settecentesca miniaturistica e briosa viene accentuato in tinte piú smorte e sbattute:

Già di que’ monti opachi in sulle vette

lucida sorge la notturna Luna...

Pallida e cheta Luna,

che testimonia sei de’ miei sospiri

e voi placide piante...[47]

Quanto orrore

occupa l’anima mia! De’ pini alteri

i tronchi rosseggianti, delle querce

i nudi ceppi sorgono dal fitto

della macchia romita, e opaca volta

formano sul mio capo. O annose piante,

dei vostri foschi rami, orror, tristezza

scendon sul capo mio.[48]

C’era dunque nella compresenza di testi diversi e di diverse reazioni un confluire, sia pure confuso e casuale nei singoli, di sensibilità e cultura verso un clima medio letterario che non sarebbe sorto senza questa opera di mediazione che nella tradizione italiana permise l’assimilazione di motivi senza cui sarebbe stata impossibile una qualsiasi maturazione romantica.

Ma dove si vede concretamente il massimo dello sforzo di mediazione preromantica e si prefigura l’apertura della tradizione al lievito preromantico è nel singolarissimo testo dell’Ossian cesarottiano.


1 Si tenga poi presente che almeno per la curiosità verso i testi inglesi, come osservò il Graf (L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII, Torino 1911, p. 40), sono da calcolare ragioni di simpatia non letterarie né precisamente scientifiche, quanto di ammirazione per il costume civile o la prosperità dell’isola.

2 Si veda soprattutto la Seconda epistola al Monti contro le letterature straniere come esempio di posizione integralmente classicistica.

3 Gusto del grandioso che trova sostegno nel nuovo interesse per la poesia biblica di cui ci sono testimoni le traduzioni (dal Mattei in poi) e i saggi come quello del Compagnoni, Saggio sulla letteratura degli Ebrei e dei Greci. Il Monti nel 1779 (Discorso preliminare al Saggio di Poesie, Livorno) dichiarava la sua bandiera essere la poesia degli Ebrei, amare David sopra tutti i poeti. Meno invece si può concedere al gusto miltoniano attraverso la versione del Rolli.

4 Cfr., pur con le sue esagerazioni, T.L. Rizzo, Dal ’600 all’800, Torino 1931.

5 A. Varano, Opere poetiche, Parma 1789, I, p. 89.

6 Ivi, III, p. 418.

7 Il Varano è, un po’ con tanto minore potenza, il Magnasco di questa situazione letteraria, e se sarebbe assurdo applicare a lui la definizione di «linearismo guizzante» che può valere per il «Lissandrino», il paragone, valga quel che valga, chiarisce questo ritorno barocco in una poetica di compiutezza elegante il cui simbolo piú preciso può apparire nella sua estrema riduzione l’Amour désarmé di Watteau, senza ombre, senza ansie, senza enfasi e pur mosso e luminoso.

8 E non nel senso generale di costume per cui G. Getto può avvertirmi di aver pensato ai miei studi accennando a materia preromantica negli scritti di A. de’ Liguori (G. Getto, A. d. L., Milano 1945, p. 202).

9 Perciò il Mamiani diceva «A me sonerà sempre caro e insigne il nome di A. Varano perché da lui segnatamente s’iniziò il corso della moderna poesia italiana», dove evidentemente «moderna» è fatta uguale a «cattolico-romantica».

10 Si ricordi sempre però per chiarezza come i ritorni barocchi anche in altre letterature siano distinguibili dai genuini motivi preromantici. Rispetto alla differenza del senso barocco della morte si può ben accettare la precisazione di André Monglond (Le préromantisme français, Grenoble 1930, p. 155): «Le changement est en ceci, que l’idée de la mort ayant cessé d’être une préoccupation surtout religieuse... elle devient une source d’émotion égotistes ou de rêveries lyriques».

11 A. Varano, op. cit., II, p. 4.

12 Ivi, II, p. 351.

13 Ivi, II, pp. 149-150.

14 La riduzione tipica dei testi fu ben vista da G. Muoni (Poesia notturna preromantica, Milano 1908, p. 14) che riportò in proposito, senza però svolgerne le conseguenze, il seguente passo di A. Loschi traduttore di Young (Venezia 1786, vol. I, p. V): «Siccome tetri sono per lo piú i colori in cui Young bagna il suo pennello, dal che dee crearsi noia alla maggior parte dei leggitori inclinati ad oggetti ridenti, cosí a rompere quella soverchia monotonia, dove il testo me ne porgeva l’opportunità, sonomi applicato al maneggio di tinte piú chiare e piú delicate, che a guisa di lume percosso sbattendo alcun poco le ombre non iscemino punto l’orrida maraviglia delle sue dipinture e ne accrescano la vaghezza e la giocondità». Passo in cui è, oltre il resto già detto, da notare la coscienza stilistica con cui il traduttore giustifica la sua opera entro i termini di una tecnica pittorica, preoccupato del giuoco chiaroscurale e non solo del semplice effetto narrativo.

15 C’è anzi nella prefazione una lettera del Metastasio in cui il vecchio poeta dice di ammirare Young «malgrado l’ostinato costume di mostrarci sempre gli oggetti dal lato lor piú funesto, e di non volerci mai condurre alla virtú, per altra via che per quella della disperazione» (ed. cit., p. xv): frase caratteristica per il contrasto fra il placido, ottimistico Settecento metastasiano e il turbato, lampeggiante cielo preromantico.

16 Notti, trad. Alberti, Napoli 1785, pp. VI-VII; tutte le citazioni sono dal I volume.

17 Notti, trad. Bottoni, ed. cit., p. 56.

18 Trad. Alberti, p. 76.

19 Trad. Le Tourneur, Parigi 1770, I, p. 44.

20 Trad. Alberti, p. 75.

21 Trad. Bottoni, p. 56.

22 Trad. Le Tourneur, I , p. 44.

23 Trad. Alberti, p. 76.

24 Trad. Bottoni, pp. 56-57.

25 Trad. Bottoni, p. 58.

26 Trad. Alberti, p. 77.

27 E difatti nell’aggraziato Bottoni le ultime righe da noi citate diventano:

Un’ombra io provo

di languido piacer, ma poi trionfa

il barbaro dolor.

(ed. cit., p. 59)

28 Cito sempre dall’Alberti (p. 97) in cui le frasi han piú nudo spicco di novità e testimoniano quasi la relazione della nostra lingua ad una novità senza addolcimento. Si noti anche come la giustificazione religiosa particolare dello Young perda tra noi la sua importanza, sí che tanto piú grandiose, allibite, eccezionali dovevano suonare queste espressioni di ardente misticismo.

29 Trad. Alberti, p. 86.

30 Ivi, p. 216.

31 Ivi, pp. 212-213.

32 Ivi, pp. 174-175.

33 Ivi, p. 72.

34 Edito a Venezia nel 1769.

35 Ed. cit., p. 68.

36 III atto, I sc.

37 Introduzione a Hervey, Tombe, trad. Roberti-Franco, in opuscolo miscellaneo, S. Lorenzo, s.d. (le pagine introduttive non sono numerate).

38 Nell’opuscolo miscellaneo citato nella nota precedente.

39 Trad. Cesa, p. 4.

40 Hervey, op. cit., pp. 78 e 75.

41 Ivi, p. 29.

42 E il testo (in questo caso Gray nella versione del Cesarotti) manca di sfumature vaporose:

The breezy call of incense-breathing morn,

the shallow twittring from the straw built shed,

the cok’s shrill clarion or the echoing horn,

no more shall rouse them from their lowly bed.

43 Coscienza rococò che Gessner chiariva a se stesso e all’amico Bertola: «La mia prima cura è stata di cercare alcuni di que’ passi la cui grazia consiste tutta in un piccolo giro e svapora come un soffio nella piú piccola variazione. Cercai alcune pitture, le quali ricevono tutte le loro vivacità da certe piccole mezze tinte» (in G. Zanella, Paralleli letterari, Verona 1885, pp. 129-130).

44 Cito da Gessner, Schriften, Wien 1784.

45 Gessner, Opere, trad. Caminer-Turra, Vicenza 1781, I, p. 19.

46 Ivi, I, p. 33.

47 Ivi, I, pp. 23-28.

48 Ivi, II, p. I.